di Angelo Panebianco – Corriere della Sera del 24.04.2012
Di quali istituzioni (e di quali partiti politici) avrebbe bisogno l’Italia per avviare una nuova stagione di crescita economica? Ha senso pensare istituzioni e partiti in questa chiave?
Cominciamo col dire che sarebbe strano se non convenissimo tutti che rilanciare la crescita economica sia la nostra priorità nazionale, lo scopo primario a cui tutti gli sforzi dovrebbero tendere. Riavviare la crescita non serve solo a ridare prosperità al Paese, serve anche a mettere in sicurezza la democrazia. La decrescita provoca impoverimento e, superata una certa soglia, l’impoverimento fa correre rischi mortali alla democrazia. Nei prossimi anni, la competizione fra le forze politiche potrà riguardare, per l’essenziale, solo le differenti ricette per rilanciare la crescita, per invertire la tendenza, per porre termine a quella emergenza nazionale che è il declino economico. E ciò richiederà la capacità di ridurre drasticamente il debito, di abbattere (giunti a questi livelli di prelievo, non si tratta più semplicemente di «abbassare», ma di abbattere) le tasse, di aggredire, possibilmente col lanciafiamme, una burocrazia inefficiente e opprimente.
Un compito del genere richiede istituzioni adeguate, dotate di un forte potere decisionale concentrato. Come si potrebbero altrimenti vincere le immense resistenze che, per esempio, si sprigionano a tutti i livelli contro qualunque ipotesi di riduzione della spesa pubblica o di semplificazione del quadro normativo? Dunque, è necessario irrobustire assai le istituzioni politiche accrescendone autonomia e potere decisionale. In concreto, si tratta di dare alla democrazia italiana ciò che non ha mai avuto: governi istituzionalmente forti.
Ciò si può fare in vari modi, sono possibili diverse strade. Mi permetto di dissentire dall’onorevole Massimo D’Alema quando, in una intervista alla Stampa (del 22 aprile), dice che la sola scelta che abbiamo di fronte è fra il sistema parlamentare e quello presidenziale. In realtà, ci sono vari tipi di presidenzialismo, alcuni efficienti e altri no. E vari tipi di parlamentarismo, alcuni efficienti e altri no. Il nostro, simile a quello della IV Repubblica francese, è, come è noto, altamente inefficiente.
La ragione per cui, su questo giornale, chi scrive ha criticato la bozza di accordo su legge elettorale e riforme istituzionali elaborata da Pd, Udc e Pdl, è che quel progetto non promette di darci ciò di cui abbiamo necessità: governi forti e stabili e drastica riduzione di quei diffusi e radicati poteri di veto che obbligano sempre i governi a compromessi al ribasso, ne bloccano le velleità riformatrici.
In un quadro che fosse di rafforzamento delle istituzioni di governo, i partiti, che sono organismi parassitari (si adattano cioè alle istituzioni in cui operano), non potrebbero avere il ruolo di dominatori delle istituzioni, dovrebbero accettare di essere strutture di servizio e di supporto per candidati in lizza per la guida del governo. Si leggono molti commenti secondo cui la crisi dei partiti personali, da Berlusconi a Bossi, rilancerebbe l’idea del partito a guida «collettiva». Chi lo sostiene forse non sa che, nel caso dei partiti, ci sono solo due possibilità: o sono guidati da un leader (che si candida per la guida del governo) o sono guidati da una ristretta oligarchia. Quanto a struttura del potere, in altre parole, i partiti possono essere solo monocrazie o oligarchie.
Davvero la soluzione alla crisi dei partiti personali sarebbe la rivitalizzazione del partito oligarchico? Nelle altre grandi democrazie europee, dove pure non si è verificata quella traumatica distruzione delle vecchie formazioni partitiche che noi abbiamo sperimentato nei primi anni Novanta, la politica democratica è competizione fra leader, sostenuti dai rispettivi partiti, per la conquista del governo. Ciò è inevitabile in tutti i casi in cui la democrazia si sposi con governi istituzionalmente forti. La concentrazione di potere nelle istituzioni di governo produce concentrazione di potere nei partiti. Chi vuole il partito a guida collettiva (ossia, oligarchico), ne sia consapevole o no, vuole anche ciò che non possiamo più permetterci: istituzioni di governo acefale, deboli e frammentate. Sembra che in Italia ci siano ancora troppi «intellettuali della Magna Grecia», così innamorati delle specificità italiane da non guardare con sufficiente attenzione a ciò che accade in altre democrazie.
L’antipolitica è un sintomo e non la malattia, si gonfia se le classi politiche non riescono a dare risposte plausibili alle sfide. Date risposte plausibili (si tratti di finanziamento dei partiti, di costi degli apparati politico-amministrativi, di riforme istituzionali, ma anche di riduzione del debito, tasse, lotta alla burocrazia, efficienza dei servizi pubblici) e l’antipolitica riprecipiterà in quei bui e un po’ maleodoranti scantinati in cui normalmente si nasconde.
Fonte: Corriere della Sera