La credibilità di un paese

Di Angelo Panebianco – Da Il Corriere della Sera

Kazakistan, Abu Omar, Marò e F35

La spiacevole e assai imbarazzante vicenda kazaka si chiude nell’unico modo ra gionevole. Senza l’affondamento del governo. Manca ancora un passo: l’allontanamento dell’ambasciatore kazako. Spenti i riflettori, del caso e delle sue ramificazio ni (che si intuiscono complesse), dovranno poi continuare ad occuparsene governo e diplomazia. Nel mezzo della crisi kazaka c’è stata per un momento la possibilità che un’altra tegola cadesse sulla testa del governo. A causa dell’arresto a Panama dell’agente Cia Robert Seldon Lady, con dannato a nove anni dalla magistratura italiana per il sequestro di Abu Omar. Erano di nuovo a rischio le relazioni fra Stati Uniti e Italia. Crisi scongiurata: gli americani si sono fatti consegnare dai panamensi il loro agente, e Roma ne ha preso atto con amarezza ufficiale (ma, c’è da scommettere, con intimo sollievo). L’insegnamento delle due, diversissime, vicende, è che puoi farti piccolo quanto vuoi ma la politica internazionale è sempre in grado di scovarti e di trascinarti nei suoi vortici. A maggior ragione se, a causa della tua natura (per lo stato delle tue istituzioni e gli orientamenti della tua opinione pubblica) non sei attrezzato a fronteggiare con efficacia ed energia le crisi che, in un modo o nell’altro, investono la sicurezza nazionale. Come nella vicenda dei marò in India anche in quella dell’incidente kazako, si è detto — e i commenti internazionali confermano — che la «credibilità» internazionale dell’Italia è stata colpita. Vero, ma non bisogna fermarsi alla superficie. La credibilità di un Paese è questione complessa. E gli incidenti suddetti sono la spia di qualcos’altro, di una debolezza internazionale dell’ Italia che dipende dal suo disordine interno. La credibilità di un Paese democratico è affidata a un insieme di fattori: finanza pubblica in ordine, istituzioni solide, forte leadership di governo, sistema partitico non frammentato e quindi meno soggetto a spinte demagogiche. E apparati burocratici che si sentono controllati da governi forti e si regolano di conseguenza. E anche dal fatto che, nelle situazioni di crisi internazionale, quando entrano in gioco questioni di sicurezza, le istituzioni pubbliche riescono (almeno nella maggioranza dei casi) a fare gioco di squadra, spingendo l’opinione pubblica a fare altrettanto. Si considerino due vicende con risvolti internazionali e di sicurezza assai importanti. Hanno in comune con il pasticcio kazako, il danno procurato al nostro ruolo in un sistema di relazioni interstatali. Il rinvio voluto dal Parlamento (duramente contestato dal Consiglio di Difesa) della decisione di acquisto degli F35, è stato un’altra dimostrazione che una politica invertebrata, frammentata, e deficitaria di leadership, mette continuamente a rischio la «credibilità» internazionale del Paese. Poiché il messaggio è stato: una parte non irrilevante del Parlamento e della opinione pubblica non sa che farsene di una difesa aerea né è interessata a mantenere gli impegni presi con i nostri partner (per non parlare delle negative ricadute aziendali e occupazionali. Oppure si prenda la questione che si trascina da anni, e che l’arresto di Robert Seldon Lady ha riportato di attualità, dei conflitti fra governi e magistratura sulla vicenda Abu Omar. Un lunghissimo braccio di ferro ha visto contrapposti i governi italiani (che insistevano nel porre il segreto di Stato) e la magistratura che, alla fine, è riuscita a condannare gli agenti Cia, l’ex capo del Sismi Nicola Pollari e altri agenti italiani. Ma perché i governi (da Prodi a Berlusconi a Monti) hanno per tanto tempo, strenuamente, difeso il segreto di Stato contro richieste e sentenze della magistratura? Perché erano spregiatori dello stato di diritto? Perché amavano i rapimenti illegali? Oppure perché i governi sanno che ci sono delicate questioni di sicurezza che non possono essere lasciate interamente nelle mani dei tribunali ordinari? Non è forse la stessa ragione per la quale Obama, rimangiandosi una promessa elettorale, non è mai riuscito a chiudere Guantanamo? Un Paese di frontiera come l’Italia, esposto a possibili minacce terroriste, ha bisogno di non compromettere i propri rapporti con gli Stati Uniti, di contare sulla collaborazione della intelligence americana e di non mettere a rischio l’operatività dei propri servizi di sicurezza. Era il problema sotteso a quel lungo braccio di ferro. Per inciso, a proposito di minacce terroriste, se qualcuno crede che le recenti vicende mediorientali (dall’Egitto alla Siria) non creeranno grandi rischi per la sicurezza qui in Europa, ha il diritto di crederlo ma solo se non ha, a qualsiasi titolo, una responsabilità pubblica. L’Italia non gode più, come durante la Guerra fredda, di una rendita di posizione. Non è più indispensabile per i suoi alleati. Adesso la fiducia di cui ha bisogno per provvedere alla propria sicurezza se la deve guadagnare con fatica. Con la credibilità appunto, che è soprattutto la capacità di coltivare alleanze e mantenere impegni. Per non parlare del fatto che un Paese non credibile, e con scarso interesse per la propria sicurezza, invoglia assai pochi eventuali investitori a rischiarvi i propri soldi. C’è chi pensa che i principi (così come essi li interpretano) della democrazia siano l’unica cosa che conta e al diavolo la sicurezza. Non pensano che ci si debbia sforzare, a causa dei pericoli internazionali, di mantenere un equilibrio precario e fragile fra esigenze diverse e, talora, contrapposte. Non si chiedono mai che fine farebbe la democrazia un minuto dòpo che fosse venuta meno la sicurezza.

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