«Riprenderci i cervelli in fuga? Gli strumenti ci sono ma tutti fanno finta di niente»

Di Massimo Giardina – Da Tempi.it

«Le contestate riforme vanno nella giusta direzione, ma bisogna avere il coraggio di applicarle».

18 ago. 2013: Onorevole Gelmini, della “fuga di talenti” si parla da molto tempo. Chi meriterebbe, non ottiene. Troppi intoppi, troppi baroni, troppo immobilismo… Come invertire la tendenza e rendere l’Italia di nuovo attrattiva per gli italiani stessi?
Sono due i livelli su cui intervenire: il rientro di cervelli che fanno la formazione all’estero e spesso non tornano; l’invito agli studenti stranieri a formarsi nel nostro Paese. Sappiamo che l’Italia attrae comparativamente pochi vincitori di progetti Erc (European research council), perché molti italiani che vincono, per non dire gli stranieri, preferiscono svolgere il progetto in altri paesi.

Chi va all’estero racconta che le attrezzature disponibili oltreconfine non sono paragonabili alle nostre.
I nostri giovani vanno all’estero e gli stranieri non vengono in Italia perché il nostro paese proietta ancora un’immagine di eccessiva burocratizzazione, di difficoltà grandi e piccole, di disorganizzazione. A vent’anni o poco più non si ha tempo per aspettare concorsi che durano due anni e le cui regole non sono chiare. Uno straniero neppure sa cosa è la Corte dei Conti, provate a spiegargli che un semplice contratto di insegnamento di poche migliaia di euro deve prima essere vistato dalla Corte con un’attesa di settimane. Non è solo una problema di risorse, ma di rappresentare l’Italia in modo diverso, come una società aperta, competitiva, meritocratica, con la vocazione all’internazionalizzazione e vigile rispetto alla trasparenza nella selezione.

Nelle aziende questa tensione c’è, nelle università un po’ meno. Non crede?
Concordo in pieno, questa vocazione alla meritocrazia non c’è nell’ambiente universitario e credo che la riforma varata con tutti i suoi provvedimenti attuativi ci consegnerà rettori di nuova generazione, più aperti all’innovazione. In più, grazie a tutta la comunità scientifica, finalmente sarà a disposizione la valutazione della qualità della ricerca. Un altro punto fondamentale è la distribuzione delle risorse ponderate sulla base dei risultati, ovvero sulla qualità della didattica e della ricerca. Sono passi avanti che purtroppo vengono taciuti perché queste riforme sono state molto contestate, ma io sono orgogliosissima di quello che ho fatto da ministro.

Quanto dice è già legge, cosa manca per compiere un vero cambiamento?
Gli strumenti ora li abbiamo a disposizione, dobbiamo avere il coraggio di usarli fino in fondo e di non avere più lo sguardo rivolto al passato. Si apre uno scenario nuovo, un nuovo campo di gioco e bisogna avere il coraggio di osare e avere il senso dell’urgenza, perché i dibattiti non bastano più e bisogna fare passi concreti. Per esempio nel decreto Fare è stato approvato un mio emendamento che alza la quota di risorse del fondo di finanziamento ordinario da distribuire agli atenei sulla base dei risultati. Una parte di questi finanziamenti è legata alla qualità delle persone assunte: chi recluta gli studiosi migliori prende più fondi, chi recluta sulla base di altre logiche viene penalizzato. Dobbiamo muoverci in questa direzione. Sono finiti i tempi delle dispute ideologiche che riguardano ormai due secoli fa; nel XXI secolo l’economia della conoscenza richiede di puntare sulla competizione, sulla valorizzazione del talento.

È finita l’epoca dei baroni?
I rettori potranno rimanere in carica sei anni e saranno scelti con diversi criteri, con un sistema di reclutamento più trasparente. Credo di aver intrapreso un percorso nuovo che è stato stabilizzato dal mio successore Francesco Profumo e che ora va portato avanti. Nel 2010 ho riformato il progetto di “rientro cervelli”, che con il tempo si era burocratizzato e isterilito, e ho creato il “Programma Rita Levi Montalcini per giovani ricercatori”. Il programma continua e ogni anno portiamo in Italia qualche decina di giovani studiosi, quasi tutti italiani, che hanno lavorato all’estero per almeno un triennio dopo il dottorato e li inseriamo in una tenure track, se conseguono l’abilitazione alla fine del triennio diventano professori associati. I numeri sono necessariamente limitati, ma è importante tenere aperto questo canale di comunicazione con l’estero.

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