Il made in Italy che vince anche se guidato dagli stranieri

Da Il Sole 24 Ore

23 ago.2013: Local knowledge, global strength. È il motto di SABMiller, il gigante della birra con molteplici identità – sudafricana (SA sta per Sud Africa e il top management è sudafricano), americana (Miller è il marchio principale e Altria è il principale azionista), britannica (la sede è nel Surrey e le azioni sono quotate a Londra) e colombiana (con 14% del capitale, la famiglia Santo Domingo è il secondo azionista e l’America Latina è la principale fonte di redditività). Ed è l’aspirazione di tutte le multinazionali.

All’assemblea generale del 25 luglio si è celebrato il decimo anniversario della prima operazione in Europa. Nel maggio 2003, SABMiller pagò 246 milioni di euro per il 60% di Peroni. Un secolo e mezzo dopo la fondazione, la Peroni aveva il 25% del mercato nazionale (secondo player) e il marchio più diffuso. Quattro stabilimenti e 12 depositi in Italia, ma scarsa diffusione all’estero.
SABMiller in compenso gestiva già una molteplicità di international brands e ha scelto di posizionare la Nastro Azzurro come una premium. Nello stesso segmento di una Pilsner Urquell – ma in Repubblica Ceca il consumo di birra è quattro volte superiore che in Italia, e non è evidente cosa voglia dire che la Nastro Azzurro ha «an unmistakable Italian taste». Sfruttando però il tema dell’Italian style SABMiller è riuscita ad imporre il marchio nel mondo, tanto che oggi l’export pesa per il 20% della produzione. Dal 2001 al 2012, le vendite di birra italiana nel mondo, non solo ma soprattutto Peroni, sono quadruplicate.

Per avere una bionda per la vita, il classico refrain della Peroni, può essere utile regalare una borsa all’anno. Un nesso che potrebbe spiegare l’enorme successo di Bottega Veneta negli ultimi 11 anni, da quando nel 2001 Gucci, allora parte del gruppo francese PPR, ne conquistò il controllo. Il marchio, pur già conosciuto grazie alla sua particolare tecnica di tessitura, fatturava una ventina di milioni di euro. Parafrasando lo slogan usato per promuovere Bottega Veneto, le iniziali non erano sufficienti per convertirla in una grande società. Nel 2012 il fatturato ha toccato quota 945 milioni di euro, mentre i dipendenti erano 2.339 – un balzo enorme rispetto ai 559 del 2004. Nel 2002-04 Bottega Veneta perdeva denaro (41 milioni di euro sul triennio) e adesso fa soldi a palate: 300 milioni nel 2012, un margine di redditività cui nessuno a Silicon Valley può probabilmente ambire. La trasformazione gestita dal binomio Tomas Maier-Marco Bizzarri ha portato i suoi frutti ben prima del previsto. Avere alle spalle un gruppo è servito per moltiplicare i punti di vendita (da 65 nel 2004 a 196 a fine 2012) e diversificare i mercati di sbocco: i mercati emergenti pesano ormai per 42% del giro d’affari, contro 15% nel 2004.

Un terzo marchio italiano che ha fatto un sacco di strada nel mondo da quando è entrato nel portafoglio di un grande gruppo multinazionale è San Pellegrino. Anche prima che la famiglia Mentasti vendesse alla Nestlè, da Ruspino, nel cuore della Val Brembana partivano le acque minerali. Ma è nel XXI secolo che lo sviluppo delle esportazioni è stato impetuoso.
Quest’anno, complice anche la crisi sul mercato nazionale, l’85% della produzione di acqua verrà consumata al di fuori dell’Italia. Anche in questo caso, senza perdere le radici italiane. Intanto perché per legge l’imbottigliamento deve avvenire alla fonte; poi perché per vendere dell’acqua a 10 e più dollari la bottiglia bisogna offrire una storia; e anche perché all’interno di un colosso come Nestlè, con i suoi 339 mila dipendenti nel mondo, San Pellegrino è diventato centro d’eccellenza per competenze specifiche come il consumo out-of-home o l’utilizzo della frutta fresca per insaporire le acque.

La morale dietro queste storie è ovvia. I capitali internazionali girano per il mondo alla ricerca di opportunità di crescita e fortunatamente, malgrado le indubbie difficoltà, le trovano anche in Italia. Se sono molte le imprese estere che continuano a investire, a crescere, a creare posti di lavoro e profitto, possono farlo anche gli italiani. Pensare che il semplice fatto di essere stranieri sia una garanzia di buon comportamento sarebbe ingenuo, ma è ancora peggio continuare a lamentarsi perché marchi del Made in Italy cambiano casacca. È tempo sprecato, soprattutto perché distrae l’attenzione dal vero problema degli investimenti esteri in Italia, che sono troppo pochi. Come riconosce l’iniziativa Destinazione Italia, è ora d’invertire la tendenza e cercare di essere competitivi nell’universo complesso degli investimenti internazionali. Senza dimenticare che l’immagine del Paese è un bene prezioso, costruito nei secoli ma fragile, e che anche su questo bisognerà iniziare ad investire.

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