di Gian Arturo Ferrari – Corriere della Sera del 17.05.2012
Dopo essersi ammazzati con entusiasmo per oltre duemila anni e aver pacificamente convissuto per poco meno di settanta, gli europei tornano a manifestare qualche reciproca inquietudine. Non è più il sangue e il suolo – o il desiderio di sangue e di suolo – a dividerli, ma un’alchemica mescolanza di cifre, percentuali e termini arcani: rating , spread , bond (o bund ? o eurobond ? mah…). Smarriti in questo labirinto e costretti su due piedi a maneggiare un po’ di macroeconomia per poter sostenere una decente conversazione, gli europei danno il peggio di sé e riscoprono non le identità nazionali (non parliamo di quella europea), ma i pregiudizi nazionalistici. I meridionali lazzaroni, i tedeschi autoritari, gli inglesi che vogliono stare per loro conto, i francesi arroganti. E più di tutti i greci, poveri greci, felicemente ignari di manifattura, mediterranei vispi, non incupiti dalla criminalità organizzata, illusi che l’Europa fosse una specie di paese di Cuccagna che elargiva fondi, strade, emolumenti e restauri a volontà. Certo, non si poteva fare l’Europa democratica senza il Paese che la democrazia l’aveva inventata, anche se qualche tempo fa. Ma inserire quella fragile economia (e quella fragile democrazia) nel tritacarne dell’euro non è stata una gran trovata.
Mentre noi europei rimuginiamo polverosi stereotipi – ma con acidità, come dopo una cattiva digestione – gli altri attori principali sulla scena mondiale procedono spediti ad applicare e tradurre in pratica i loro principi, le idee costitutive del loro modo d’essere. Gli americani continuano a ragionare in termini di libertà, quella vera però, e di sicurezza: to be free and to be safe restano i loro fari, i loro caposaldi. Gli aspiranti presidenti gareggiano essenzialmente sul tema di chi è più americano. I cinesi applicano con risolutezza spietata i principi del comunismo confuciano e mandarino di loro invenzione, mentre rinsaldano, come tradizionalmente prescritto, i confini dell’impero. Gli islamici perseguono con varietà di mezzi – nucleari, petroliferi, movimentisti, terroristici – l’idea di una teocrazia di cavallo e di spada, com’era all’origine dell’Islam, opportunamente adattata al terzo millennio.
Insomma, sembrano tutti aver ben chiaro che cosa stanno a fare al mondo e che cosa vogliono. Certo, si dirà, ma sono facilitati gli uni dall’unità statuale e gli altri da quella religiosa, mentre la nostra Unione non è nè carne né pesce e quanto alla religione meglio lasciar perdere. Ed è anche vero che in forme diverse – tradizione isolazionista per gli Stati Uniti, comunità dei credenti per l’Islam, sudditanza al Figlio del cielo per la Cina – la chiusura su se stessi ha molto agevolato la determinazione di identità. Mentre l’Europa, nel suo tentativo di comprendere tutto e tutti, di allungarsi su ogni remoto angolo del globo terrestre, ha finito per perdere il senso del proprio baricentro, della propria ragion d’essere. Altro che eurocentrismo!
Soprattutto, quel che i nostri per così dire concorrenti hanno ben chiaro e su cui noi invece annaspiamo, è che la prosperità economica è una conseguenza e non una causa. Che gli uomini fanno l’economia e non l’economia gli uomini. E che per fare una economia prospera gli uomini hanno bisogno di realismo certamente, di coesione senz’altro, ma prima ancora di consapevolezza di se e del proprio ubi consistam .
Un europeo apostata, Henry Kissinger, in alcune pagine lucide e sprezzanti ha asserito che l’Europa non ha più, non avrà mai più, la forza di pensare a un proprio compito, di darsi un destino. Può essere. Ma se così non fosse, e noi vogliamo e dobbiamo pensare che così non sia, non c’è dubbio che il nostro asset principale per scavarci un posto al sole, il fulcro su cui far leva, il tratto identitario fondamentale, è precisamente la cultura, la cultura europea. Non solo e non tanto nel senso patrimoniale ed ereditario, ma più ancora per la sua plasticità, per la sua elasticità, per l’ampiezza e pienezza dei registri. Non è tanto questione di pluralismo, termine tanto abusato da essere ormai vuoto, quanto di ricchezza: la cultura europea è una grande orchestra, la più grande orchestra, in attesa di compositori e di musiche degne di essere suonate.
Più che di un fiscal compact l’Europa ha bisogno, necessità urgente, di un cultural compact , di ritrovarsi, di ritrovare nella propria cultura la ragione profonda del suo essere. La cultura non si mangia, è stato incautamente detto. È vero, non si mangia oggi. Ma se non investiamo oggi in cultura è difficile che i nostri figli e i nostri nipoti possano mangiare qualcosa d’altro domani.
Fonte: Corriere della Sera