di Michele Tiraboschi – Il Sole 24 Ore del 20.04.2012
Modificare il quadro di regolazione dei rapporti di lavoro non è facile. In Italia più che altrove. Va pertanto apprezzato lo sforzo di chi si cimentarsi in una impresa tanto complessa e fondamentale per il rilancio del Paese.
Idee e progettualità non sono mai mancate. Come ricordava Marco Biagi, con un insegnamento ancora attuale, ciò che invece non è ancora avvenuto è il superamento di pregiudiziali ideologiche e tensioni sociali che rallentano le riforme necessarie. Con il suo progetto di riforma, il Governo Monti ha per la prima volta dimostrato che è possibile superare veti corporativi e tabù che, da troppo tempo, penalizzano le imprese e anche i loro lavoratori. Questo è il principale merito del progetto di riforma presentato dal Ministro Fornero a cui vanno riconosciute doti non comuni di coraggio e determinazione. Ha ragione Mario Monti quando dichiara che la riforma del lavoro merita una seria valutazione. Nella tradizione italiana manca tuttavia una adeguata strumentazione per valutare in anticipo gli effetti delle proposte di legge. Perciò resta da dimostrare che la riforma avrà un impatto importante e positivo sul mercato del lavoro.
Il disegno di legge, molto opportunamente, ipotizza un sistema permanente di monitoraggio e valutazione delle dinamiche del mercato del lavoro. Tuttavia, almeno a chi ricordi l’analoga strumentazione nella legge Biagi, pare chiaro che il vero problema non siano le disposizioni di legge quanto la loro concreta attuazione. Da dieci anni attendiamo l’implementazione di un efficiente monitoraggio. E così per centinaia di disposizioni di legge strategiche: pensiamo alla riforma dell’apprendistato, alla borsa del lavoro, al libretto formativo del cittadino, al raccordo tra operatori pubblici e privati del mercato del lavoro. Ma anche al principio cardine di un moderno sistema di ammortizzatori sociali, che imponga la perdita del sussidio pubblico al percettore che rifiuta una offerta di lavoro congrua. Istituti ora rilanciati dalla riforma Fornero e che, pur tuttavia, paiono destinati a rimanere lettera morta se la risposta, come in passato, sarà solo legislativa e non di tipo politico-istituzionale.
La vicenda dell’articolo 18 si è rivelata un boomerang per quanti ne auspicavano la cancellazione o un drastico ridimensionamento. Per le aziende di grandi dimensioni il peso decisivo assegnato all’intervento dei giudici finirà per aumentare l’incertezza in cui ora versano le imprese, disincentivando la spinta a nuove assunzioni a tempo indeterminato. Per le piccole imprese poi lo scambio sull’articolo 18 è tutto a perdere visto che si troveranno fortemente penalizzate nella gestione flessibile della forza lavoro in entrata, senza per contro trarre alcun vantaggio da modifiche in uscita.
Sull’articolo 18 il Governo ha preteso di comprovare la bontà del progetto, in base all’assunto che se la riforma non piace a nessuno vuol dire che si è raggiunto un buon equilibrio tra i contrapposti interessi. Ma è una conclusione sbagliata. E c’è il grave paradosso di ritenere necessario il cambiamento in ragione delle «esigenze dettate dal mutato contesto di riferimento» ma non saperlo interpretare fino in fondo limitandosi, anzi, a riproporre uno schema di giuridificazione dei rapporti di lavoro, quello del lavoro subordinato a tempo indeterminato, tipico del secolo scorso e funzionale a vecchie logiche.
La riforma Monti-Fornero non è brutta o tecnicamente inadeguata ma, più semplicemente, concettualmente sbagliata perché si fonda sulla irragionevole convinzione di poter ingabbiare la multiforme realtà dei moderni modi di lavorare e produrre in un unico (o prevalente) schema formale, quello del lavoro subordinato a tempo interminato che pure, per lo stesso Monti, non esiste più o quantomeno «è noioso». Nel mutato contesto economico una lotta senza quartiere verso forme di lavoro flessibile, coordinate e continuative o temporanee, è possibile, ma solo a condizione di smantellare in modo sostanziale, forti della riforma degli ammortizzatori, le rigidità in uscita, tertium non datur. Una soluzione a metà, come quella che emerge, finirebbe per penalizzare non solo il sistema delle imprese, ma prima ancora gli stessi lavoratori. A partire dai giovani e dagli esclusi dal mercato del lavoro che, ancor più di oggi, sarebbero vittime sacrificali predestinate (non al precariato) ma al lavoro nero.
Con il disegno di legge n.3249 siamo a metà del guado. Spetterà ora al Parlamento decidere se procedere sino in fondo, sul versante delle flessibilità in uscita, o se fare, invece, una frettolosa marcia indietro sul fronte delle flessibilità in entrata. In mezzo al guado non si va da nessuna parte e si rischia solo di affondare.
Fonte: Il Sole 24 Ore